Mi svegliai su un divano sgualcito color verde petrolio, che per la stoffa che lo ricopriva mi ricordò quello che c’era a casa dei miei nonni prima che il cane lo distruggesse e li costringesse così a cambiarlo. Quella bestiola era piccola ma malefica: aveva due denti aguzzi e di un bianco brillante, di cui uno – quello sinistro – spuntava fuori dal labbro come a voler intimorire il prossimo. Loro però lo adoravano e lo guardavano come se fosse la creatura più dolce e indifesa del creato. Non li ho mai capiti, ad essere sincera.
Mi sfregai gli occhi rimuovendo dalle mie ciglia quelle odiose crosticine che mi tenevano le palpebre incollate. Poi mi guardai attorno e la stanza buia in cui mi trovavo, che fino a poco prima era solo un miscuglio di sagome scure, iniziò finalmente ad acquisire dei contorni. Nella penombra, mi apparve in lontananza una poltrona spinta contro una parete, sulla quale stava rannicchiata la mia amica del cuore, con i capelli scuri arruffati e un braccio davanti al viso, forse per proteggersi gli occhi dalla luce del mattino. Di fronte a me, oltre a un tavolino da caffè ricoperto da cartacce, avanzi e resti appiccicosi di alcool rovesciato, c’era un altro divano, più piccolo di quello su cui stavo io ma dello stesso colore. Lì, vidi il mio amico Simone sdraiato in una posizione tutto meno che comoda, con la bocca semiaperta e le braccia rannicchiate al petto. Dall’altro lato del divano c’era mia cugina – la sua ragazza – con le gambe attorcigliate a quelle del fidanzato, la testa nascosta da un cuscino e una mano che sfiorava il terreno.
La mattina è sempre dura alzarsi. Lo era quando suonava la sveglia per andare a scuola che io puntualmente rimandavo, e lo è anche dopo una lunga serata, seppur per motivi diversi. Quella volta avevo proprio esagerato, perché non riuscivo a decidermi ad alzarmi, o almeno a mettermi seduta. Il pavimento di mattonelle scure mi sembrava veramente freddo e io indossavo solo delle calze consumate: mi sarei congelata sicuramente i piedi. Dov’erano le mie scarpe?
Cercando di fare meno rumore possibile, allungai la mano verso il tavolino da caffè, spostando lentamente una bottiglia e il vicino posacenere pieno, in cerca del mio cellulare. Mi si prospettava un lungo viaggio verso casa, e io mi domandai se la notte prima mi fossi ricordata di metterlo in carica. Sicuramente, dovevo prima trovarlo.
Mentre mi guardavo attorno, la mia amica sulla poltrona iniziò a muoversi, spostando il braccio dal viso e sistemandosi i capelli dietro le orecchie. Piano piano, anche lei si stiracchiò e si passò una mano sopra gli occhi stanchi.
– Pssst, sai dov’è il mio cellulare? – le chiesi, sottovoce, cercando di non svegliare gli altri due.
– Ma che ne so, non mi ricordo neanche a che ore mi sia addormentata. – mi rispose, volgendomi uno sguardo stanco e parlando con una voce particolarmente roca e provata.
Effettivamente, neanche io me lo ricordavo. Sospirai, come a volermi schiarire le idee, e dopo qualche altro sguardo in giro per la stanza mi decisi ad alzarmi.
Come da previsioni, il pavimento era gelido e le mie calze sgualcite non bastavano a tenermi calda. Mentre i miei piedi si congelavano sempre di più ad ogni passo, io vagai barcollando per la stanza in cerca di quello stupido cellulare. Non era in carica da nessuna parte, non lo trovai sul tavolino e nemmeno tra i cuscini del divano su cui ho avevo dormito. Mi grattai energicamente la nuca e provai a trovare altre soluzioni. Chissà, magari era sull’altro divano, o sotto uno dei due. Mi sentii quasi irrequieta. Che sciocchezza, a pensarci, essere così tesi per un cellulare. Però non sapevo neanche che ore fossero e non c’erano orologi in quella stanza. Mi rivolsi così di nuovo all’unica altra persona sveglia e le domandai che ore fossero.
– Sono le undici e dieci. Mi sa che abbiamo dormito poco… – mi rispose lei, dopo aver guardato il suo orologio da polso. Poi si lasciò andare a un immenso sbadiglio.
Avrei voluto solo trovare il mio cellulare, per mandare un messaggio ai miei genitori e magari controllare la galleria per capire cosa fosse successo la sera prima, che di quei momenti rimanevano soltanto un vuoto totale e la gola piena di catarro. Proseguii la mia ricerca piano piano, nel rispetto del sonno degli altri due, e all’improvviso quel silenzio che cercavo in tutti i modi di mantenere intatto venne spezzato da una melodia proveniente dall’altro lato della stanza. La riconobbi subito: era la mia suoneria! A grandi passi, mi diressi verso quel suono e lì lo vidi: era abbandonato per terra all’interno di una delle mie scarpe. Come poteva esserci finito lì? Sospirai e lo presi in mano, poi lessi il nome della persona che mi stava telefonando: era l’amico mancante che non vidi al risveglio.
– Mi spiegate perché non trovo più il mio portafoglio? – disse subito lui, senza alcun saluto di preambolo.
Intontita ed estranea alla problematica, gli risposi:
– Guarda, del tuo portafoglio non so proprio nulla, a malapena ho trovato il mio cellulare! Ah, a proposito, grazie.
Dall’altro capo della chiamata, sentii chiaramente un profondo sospiro, seguito da una serie di lamentele circa il portafoglio scomparso.
– Cazzo! – esclamò. – Sono in stazione, ora come ci torno a casa?
– Torna indietro, prenderai il prossimo treno… intanto lo cerco – risposi io, maledicendomi in silenzio all’idea di dover iniziare un’altra ricerca.
Una volta conclusa la chiamata, mi girai e notai che mia cugina e Simone erano svegli, e avevano gli occhi puntati su di me: alla fine, avevo svegliato proprio tutti. Per mia fortuna, però, nessuno si lamentò e mia cugina si offrì di aiutarmi a cercare il portafoglio scomparso. Dopo numerosi sbadigli a catena e un paio di stiracchiate, iniziammo la nostra ricerca. Nel frattempo, Simone iniziò a ripulire la stanza e la mia migliore amica si diresse verso la cucina, offrendosi di preparare la colazione.
Dopo un’abbondante mezz’ora di ricerca, finalmente trovammo il portafoglio. Non ci potevo credere: come fosse una maledizione, lo trovammo infilato in una delle scarpe di mia cugina. Dopo una smorfia incredula, lo presi e lo misi da parte in un angolo del tavolino all’ingresso.
Passò qualche minuto e suonò il citofono: era appena arrivato il proprietario del portafoglio. La padrona di casa uscì dalla cucina dove stava preparando la colazione e si avviò al citofono. Prima di rispondere ci domandò se alla fine fossimo riusciti a trovare il portafoglio, scherzando sul fatto che avesse assunto l’importanza del Santo Graal.
Dopo una nostra risposta affermativa, rispose al povero malcapitato:
– Ce l’abbiamo, sali tu o te lo mandiamo giù in ascensore? … Va bene, arriva, ciao!
Subito dopo prese il portafoglio e uscì per pochi istanti sul pianerottolo, per metterlo in ascensore. Poco dopo, la colazione era finalmente pronta. La stanza era stata riordinata quasi del tutto e noi ci sedemmo volentieri al tavolo.
Ci ritrovammo così tutti e quattro in cucina, con le facce ancora mezze addormentate e le bocche impastate. Piano piano, iniziammo a rispolverare i ricordi della notte prima. Saltò fuori che, a quanto pare, dopo aver fumato e visto un film horror squallido di cui nessuno ricordava il nome, facemmo un gioco alcolico – ecco spiegati gli oggetti nelle scarpe, chissà che stupida penitenza è stata – e ci addormentammo uno dopo l’altro, abbattuti dal sonno come mosche. Il ragazzo del portafoglio, Luca, si era svegliato per primo e si era preparato senza fare rumore: nessuno di noi si era accorto di nulla. Dopo aver parlato un po’, convenimmo che forse avevamo esagerato un po’ la sera prima. Effettivamente la stanza sembrava aver subito la visita di un paio di ladri, più che aver ospitato una festicciola con una manciata di persone.
Una volta finito di mangiare, piano piano tornammo in forze. Il cibo aiuta sempre, soprattutto dopo una nottata del genere! Così iniziai a raccogliere le mie cose, preparandomi per tornare a casa. Senza nemmeno pensarci, percepii le mie guance plasmarsi attorno a un largo sorriso: anche quella volta eravamo sopravvissuti a un sabato sera organizzato all’ultimo momento, ma vissuto fino all’ultimo minuto.