La vita è proprio buffa. Ti prende in giro. Un giorno odi una cosa e poi, quando non ce l’hai più, ti manca visceralmente. Cosa cambia? Forse non vediamo né viviamo le esperienze allo stesso modo, quando sono parte del presente?
Odiavo la scuola. O meglio, odiavo le emozioni che mi suscitava. Il senso di non essere abbastanza, la fredda incomprensione da parte dei professori, i voti, le scadenze stressanti, la nausea e i buchi allo stomaco ogni mattina. Quando mettevo piede in quell’aula disastrata, sapevo già che mi sarei intristita, o avrei perso le staffe.
C’era quel qualcosa, però, che mi ridonava il sorriso. Le persone. Quelle come me. Tutti coloro seduti ad un banco con gli occhi sulla lavagna, che provavano le mie stesse cose. I miei compagni. I miei amatissimi e odiatissimi compagni.
Con loro, il mio umore non era mai del tutto rovinato. Trasformavano quell’aula in un parco giochi, in un rumorosissimo stadio, in un ring su cui scontrarsi inutilmente col professore di turno, ma dando spettacolo. Mi sentivo a casa, spesso. Certo, era un po’ strana e affollata, ma era la mia seconda casa e i miei compagni erano la mia seconda famiglia.
Però la scuola è pur sempre la scuola e per 13 anni ho fatto il conto alla rovescia chiedendomi quando sarebbe finalmente terminato quel supplizio, dicendomi che non ne potevo più di quel sistema improbabile e mal gestito.
Poi arrivò la mia maturità. L’ultimo giorno di scuola in cui l’aula si trasformò in una pista da ballo, gli interminabili giorni di studio finale desiderando soltanto l’estate, la pizzata di fine anno dopo cui ottenni un passaggio a casa dalla mia insegnante di alimentazione, i due temutissimi scritti preceduti da una bella colazione di gruppo al bar di sempre, l’orale con i palmi delle mani bagnati di sudore, il saluto finale ai professori, l’abbraccio sfinito ai miei amici, il voto, l’addio definitivo alla scuola. Accadde tutto in un attimo. Quando mi chiusi la porta di quell’aula alle spalle, la numero 16 a cui qualcuno aveva aggiunto tre zeri con un pennarello, mi resi conto che era davvero la fine. Improvvisamente, nonostante mi sentissi libera come un fringuello, realizzai che ero fuori, per sempre.
Nessuno studio estivo, nessuna sveglia alle 6.30, nessun viaggio in tram, nessuna corsa alle macchinette dopo la campanella, nessun ritrovo in corridoio con amici di altre classi, nessuna verifica, nessun voto. Ma soprattutto, non mi sarei più potuta sedere a quel banco in ultima fila, nell’angolino più nascosto, nella mia adorata aula 16000, dalle pareti gialle mezze scrostate e disegnate, dai larghi finestroni che urlavo sempre di chiudere in inverno. Avevo perso la mia seconda casa. Quel luogo in cui detestavo tanto stare, ma che mi regalò momenti indimenticabili, costellati di risate, pianti, ansie, sussurri e problemi che allora parevano insormontabili, ma che pagherei oro per tornare ad affrontare.
L’estate successiva alla mia maturità fu all’insegna del divertimento. Me la godetti, seppur senza alcun viaggio con le mie amiche più care. Poi giunse settembre e, mentre vedevo i più giovani tornare a scuola, io correvo da un tavolo all’altro portando pizze su pesanti taglieri di legno e birre alla spina. Cosa avrei dato per mettermi quel fedele zaino pieno di toppe di altri paesi in spalla e tornare là, salutare i miei amici con un largo sorriso emozionato seguito da un amorevole pugno su un braccio, entrare in quell’aula sfigatissima e accaparrarmi nuovamente il banco in ultima fila, nell’angolino più nascosto.
Ma era finito tutto. Potevo solo rifugiarmi in quegli sporadici sogni che ogni tanto mi illuminavano la notte di nostalgia. Incontrare la mia professoressa di economia che mi appioppava un 3 ma mi diceva che potevo fare molto meglio; quella di spagnolo che ci faceva vedere un film e ci intimava di stare zitti balbettando; la mia adorata insegnante di italiano, la mia mentore, che si perdeva nei suoi stessi discorsi e si scusava con noi della sua sbadataggine. Oppure le bidelle che non rifiutavano mai una chiacchierata a metà lezione fuori dai bagni e che ci ripetevano di non prendere a calci le macchinette per far cadere le merendine incastrate, o ancora le assistenti dell’aula d’informatica che si erano così affezionate alla nostra classe.
Non ero più una studentessa. L’ho desiderato così a lungo e ora, invece, quando sono giù di morale riguardo le foto scattate e i video girati in quell’aula 16000, ritrovandomi a ridere, per poi sospirare, dicendomi che lì, allora, in realtà ci stavo proprio bene.