Estate al lago

Quando ero piccolo, io e i miei genitori eravamo soliti passare l’estate in campeggio sul Lago di Garda.

Ogni anno trovavo lì i miei amici, con cui passavo giornate indimenticabili. Il tempo scorreva veloce, volando come uccellini tra i rami degli alberi, e noi ogni giorno lo passavamo tra l’erba morbida e le sponde umide del lago cristallino. Alcuni si rincorrevano, ma io non riuscivo a tenere il loro ritmo e rimanevo a guardarli, facendo il tifo per l’uno o per l’altro. Il sole intanto si tuffava nell’acqua e disegnava con i suoi colori riflessi che parevano appartenere ad un mondo distante, di un altro universo. Noi gettavamo i sassolini piatti sulla superficie increspata del lago, contandone i rimbalzi ad alta voce. Io non sono mai stato molto bravo, ma mi divertivo ugualmente. I miei amici si inventavano storie assurde su quel curioso fenomeno che ci divertivamo a provocare, e io ridevo di gusto delle loro sciocchezze. Poi ci tuffavamo di testa, come il sole sui nostri capi. Potevamo stare a mollo per ore come anatre, fino a quando i nostri genitori ci venivano a chiamare all’imbrunire, invitandoci a prepararci per la cena.

In quel campeggio c’erano numerose famiglie ma, col passare del tempo, se ne creò una unica, composta da numerosi genitori e altrettanti figli, tutti fratelli e sorelle. L’amicizia era una cosa preziosa, sulle sponde di quel lago: lì imparai il valore dell’ascolto e dell’aiuto. C’era sempre qualcuno disposto a porgermi la propria mano nel caso in cui avessi bisogno, c’era sempre qualcuno che sapeva comprendere i miei timori. Lì non mi sentivo diverso. Ero proprio come i miei amici e le nostre differenze rappresentavano un tesoro, un trofeo da esporre con fierezza. Nessuno si vergognava di niente, al lago. Eravamo tutti sotto lo stesso cielo, a condividere la stessa terra. Non c’era cattiveria, non c’erano risate malvagie o battute di scherno.

Mio padre ogni tanto mi portava a fare delle belle passeggiate, interessanti esplorazioni che lui era solito chiamare “avventure padre-figlio”. Ovviamente, non erano troppo lunghe e stancanti perché io faticavo a stargli dietro, e dopo un po’ mi facevano inevitabilmente male le gambe e la schiena, ma lui si fermava spesso e, con un bel sorriso, mi invitava a godermi la vista di quel magico specchio d’acqua argentata, aguzzando gli occhi dal punto in cui sostavamo. Gli alberi avevano un odore particolare, al lago. Forse mi sapevano di felicità. Forse mi apparivano anche diversi rispetto a tutti gli altri. Quello in fondo era un mondo speciale in cui mi rifugiavo volentieri ogni anno, nel quale cui crebbi sereno e senza la costante preoccupazione di essere meno adatto alla vita rispetto agli altri.

Mi ricordo ancora i grandi falò, le canzoni suonate con la chitarra e cantate a squarciagola, il tepore sulle mani che riscaldava i nostri corpi intorpiditi dal vento. Sempre insieme, noi ragazzi e ragazze sembravamo una tribù. Eravamo fratelli e sorelle che avevano scelto tale legame e lo coltivavano giorno per giorno, di anno in anno. Non dimenticherò mai la vista della volta celeste di notte, puntinata di luce da un abile artista. Quando alzavo gli occhi al cielo io ci vedevo la libertà. Forse le mie gambe non erano in grado di portarmi lontano, ma il mio cuore sì. Mi sentivo invincibile, in mezzo ai miei amici. Si stava così bene, al lago.

Ogni anno, quando arrivava il momento di salutarsi, ero sempre un po’ triste. Anzi, forse lo ero molto. Per me terminava un periodo di gioia assoluta e non potevo che piangere all’idea di tornare al mio piccolo inferno quotidiano. Quella di tutti i giorni era una realtà amara, che mi metteva in disparte. Ma i miei amici del lago erano diversi. Quando arrivava il momento mi venivano ad abbracciare uno ad uno, come fedeli in fila per la comunione, e i più forti mi prendevano in braccio come un trofeo, urlando a gran voce il mio nome, come fossimo calciatori allo stadio che festeggiano al termine di una partita vinta.

Gli anni passarono in fretta e l’adolescenza sfumò via come cenere. Poco a poco, diventammo sempre di meno. La nostra grande famiglia divenne sempre più piccola, inghiottita dagli impegni, dai doveri, da altri luoghi. Sparivano uno dopo l’altro, i miei fratelli e le mie sorelle. Alla fine, restammo solo io e i miei genitori, circondati da altre grandi famiglie di sconosciuti.

Io però ho continuato ad andare lì ogni anno, perché non potevo non tornare nel mio posto felice. Lanciavo i sassolini piatti in solitudine, mi tuffavo da solo, non partecipavo più ad alcun falò. Però mi restavano i ricordi. Ovunque guardassi, vedevo i miei amici, la mia grande famiglia. Sentivo le risate, percepivo il calore del fuoco, ascoltavo il flebile rumore dell’acqua dolce che danzava sotto al sole, e osservavo il riflesso della luna sulla sua superficie.

Ora resto solo io. Passo l’estate seduto in riva al lago, con la gamba ormai dolorante anche quando sto immobile e lo sguardo sull’acqua. I bambini che frequentano questa riva, anche se mi ricordano tanto i miei amici di gioventù, non hanno lo stesso loro amore. Mi additano in silenzio, convinti che non li veda, e tacciono pizzicandosi a vicenda quando zoppico verso la mia tenda.

In passato mi sarei vergognato, mi sarei nascosto. Ma qui ho imparato che non valgo meno di nessuno, e che io sono io anche con i miei “difetti di fabbrica”, come diceva la mia prima fidanzatina. Riderete di me, ma questo luogo resta il mio posto felice, zeppo di ricordi che potete solo invidiarmi.

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