Mi hanno lasciata qui molto tempo fa.
Lei mi porta sempre con sé, dapprima tenendomi stretta la mano, avvolgendomi col suo affetto, e poi assicurandosi che le sia vicina in ogni momento della giornata: i compiti, la televisione, i pasti. E sorride, sempre. Le basta guardarmi per sentirsi di buon umore, le basta abbracciarmi per smettere di aver paura, la notte.
I suoi capelli rossi, che tiene sempre ben ordinati in una lunga treccia, mi ricordano il tramonto, e la sua dolcezza mi intenerisce.
E quei suoi grossi occhiali tondi, con la montatura sottile e azzurra, che le incorniciano così bene il viso, pieno di lentiggini. Ricordo la sua abitudine di pulirli col lembo della manica, nonostante la mamma le ripeta sempre di usare la pezzuola.
Lei non fa altro che leggere, in continuazione, spesso anche ad alta voce, per me. Ha una voce così dolce, melodica. Ascoltarla mi fa emozionare, mentre mi immagino protagonista di quelle storie.
Poi parla, parla sempre, di qualsiasi cosa. Mi racconta i suoi sogni, le giornate in compagnia delle amiche, mi confida ogni segreto.
Diventammo amiche: io sono sempre lì per lei, dai suoi primi giorni di vita, e lei mi fa sentire amata. Il primo pensiero del mattino è lei, l’ultimo prima di addormentarmi è lei, tutto il mio mondo ruota attorno a lei.
Ricordo come fosse ieri quel giorno: il sole sorse, come sempre, e i suoi raggi caldi fecero così capolino dalla finestra, scivolando lungo le pareti rosa della stanza e scalando le coperte del lettino. Come sempre, mi svegliai dalla mia guardia e respirai a fondo l’aria fresca del mattino.
Ecco che quel giorno, una volta svegliatasi, la mia cara amica dai capelli rossi mi prese con sé, come sempre, e corse in cucina. Quella mattina si preparò e mangiò in fretta, mentre mamma e papà correvano in giro per la casa, visibilmente di fretta. Non mi è mai piaciuta tutta quella sciocca frenesia.
Dopo poco, ecco che uscimmo di casa: il cielo era sereno, limpido, di un azzurro bellissimo, che ricorda il mare d’estate. Faceva freddo, però, e lei si stringeva nel suo cappotto lilla, sistemandosi la sciarpa sotto al mento. Una volta raggiunta la macchina, papà aprì la portiera a me e sua figlia, che mi teneva per mano, stringendomi a sé, e la richiuse dietro di noi. Salì poi la mamma, davanti, e partimmo.
Quel giorno, al contrario di altre volte, non sapevo dove fossimo diretti, ma mi godetti il viaggio. Dopo una manciata di minuti, uscimmo dalla città e ci inoltrammo nell’aperta campagna. Le strade lì erano piccole, poco trafficate. Lei si divertiva a contare le mucche, mentre papà discuteva con la mamma: accadeva spesso, lo vedevo e lei me ne parlava. Erano così. Ricordo le parole di papà, le risposte accese di mamma, i loro toni aspri. Lei però non sembrava curarsene: insomma, aveva contato oltre trenta mucche e rideva da sola all’idea di vederne altre.
Ricordo che la strada iniziò a farsi a curve, cosa che lei detestava, perché le faceva venire la nausea. Allora, come sempre, chiese a papà di andare piano, ma la sua voce sottile non sovrastò i toni forti e amari della discussione, per quanto ci provasse.
Allora mi strinse forte, chiuse gli occhi e cercò di non pensarci. Mamma e papà urlavano, e io vedevo i loro volti contratti in espressioni d’odio e amarezza, le curve davanti a noi.
Papà non ne vide una, molto stretta. Girò il volante all’ultimo momento, in una brusca manovra. In un grosso sussulto, tutti smisero di urlare. Mi sembrò di volare, per un attimo.
Ma poi l’impatto, il silenzio.
Io e lei ci trovammo fuori dall’auto, in un mare di cocci di vetro, che sotto il sole creavano splendidi giochi di luce sull’asfalto caldo. Mamma e papà invece erano ancora dentro, col volto chino e sfregiato, immobili, con le cinture allacciate che tenevano dritto il loro petto.
Guardavo lei: i suoi occhiali tondi erano rotti, e tutto attorno e addosso a me aveva il colore della fragole. Era immobile anche lei, con le trecce scompigliate, le manine bagnate, gli occhi chiusi come se stesse dormendo.
Passarono alcuni giorni, mamma e papà si ripresero dall’incidente, vestirono di nero e mi portarono in un posto che non avevo mai visto. Le pareti lì erano divise in grossi rettangoli, ognuno con una foto, dei nomi, delle date. E poi c’erano fiori colorati ovunque: quella visione mi sembrava un quadro bellissimo, ma dal misterioso aspetto malinconico, quasi triste.
Vidi anche la sua di foto, il suo nome, due date. Poi vidi una piccola cassa in legno chiaro, sovrastata da un enorme bouquet di fiori lilla, come il suo cappottino, e tantissime persone. Mamma mi teneva stretta, come faceva sua figlia, e mi bagnò di lacrime. Tutti piangevano, tutti erano vestiti di nero.
Più tardi, quando se ne andarono tutti, mamma e papà mi baciarono in fronte, e mi adagiarono affianco alla bellissima foto della loro bambina.
Li vidi allontanarsi, sentii il pianto della mamma sfumare in lontananza, come le canzoni che ascoltavamo in camera io e la mia amica. Restai lì, in sua compagnia.
Ora ormai questa è casa mia: mamma ci viene a trovare spesso, e piange, mentre col lembo della manica pulisce la foto ovale dalla polvere. Poi, prima di andarsene, mi accarezza il viso e mi raccomanda di tenere la sua bambina al sicuro.
E io l’avrei voluto fare anni fa, ma non ho potuto.
Così che ora sto seduta vicino a lei, come un tempo, ma non mi parla più.