C’è un’angoscia, nascosta ben bene tra le pieghe della mia mente.
Un’angoscia senza età, senza viso, un’ombra color inchiostro che piano piano mi consuma.
È la paura di non essere abbastanza, di non fare abbastanza. È la paura di deludere irreparabilmente, di lasciare volti scuri di rabbia lungo il mio cammino. È guardarmi allo specchio con un sorriso, ma sapere che qualcuno non mi vuole così, né l’ha mai voluto. È la sensazione di essere stata eclissata dal giorno della mia nascita, è l’abbandono.
Un’angoscia ormai legata a me per sangue, per le lacrime versate, un’angoscia ormai mia coinquilina.
Come posso debellarla? Come posso cacciarla? Forse non si può, forse è troppo tardi. Forse mi manca la forza, forse sto bene nella sofferenza più disperata.
Forse è colpa di chi non mi apprezza, di chi mi vuole diversa, uguale a tutti gli altri, uguale a sé.
E io, inerme, mi bagno le guance di mare in tempesta, col fuoco in viso e il corpo immobile, a contatto con le piastrelle bianche della stanza, compagne di discorsi mai fatti, di parole mai dette.
Quanto è crudele questa angoscia. Quanto mi consuma e mi strappa le parole quando tutti gli altri parlano, quanto mi ha cresciuta sotto le sue ali sudice, quanto mi ha cullata tra i rovi spinosi e tra i miei più amari perché.
E ci penso, passo le giornate a chiederle qual è il suo obbiettivo, se gode e sorride quando sto male, male da morire. Ma lei tace, sempre, e mi lascia sola, a riflettere per ore senza trovare mai una risposta, che forse lei sa tutto ma non parla.
Allora urlo, mi dispero e poi taccio all’improvviso, sorprendendomi di quanto male possa fare una singola sensazione.